Proponiamo la presentazione della scultura Resurrectio di Vincenzo Avagliano, che ha avuto luogo nella cerimonia di inaugurazione avvenuta il 14 maggio 2011 a Castel San Giorgio. L'opera è stata posta su un bastione del sagrato che collega la Chiesa parrocchiale di S. Maria delle Grazie e la chiesa settecentesca di Maria SS. Immacolata curata dell'omonima Arciconfraternita.
Vincenzo Avagliano e il procedere della Resurrectio
di Adelaide Trabucco
Non sono frequenti le opere in scultura che hanno come tema la Risurrezione. Tra gli scultori che si sono cimentati con il suddetto soggetto ricordiamo Francesco Messina: nella Risurrezione di San Giovanni Rotondo rappresenta Cristo il quale nel mantello che gli fa corona porta con sé il vibrare tempestoso dell’evento. Ancora, Pericle Fazzini nella Risurrezione della Sala Nervi, la Sala delle Udienze in Vaticano, Cristo si eleva risorgendo da un foltissimo intrico di forme semiastratte che vogliono significare l’Orto del Geetsemani.
Come mai è così poco frequente tale argomento in scultura? La Risurrezione è un tema che sotto il profilo artistico richiede l’espressione della dinamica, per quanto oggettivamente impenetrabile essa sia, legata all’evento del passaggio dalla morte alla vita: è evidente che la materica staticità di una scultura in quanto tale è in antitesi con il movimento.
Ricordiamo il tentativo, assunto poi a valore paradigmatico, di visualizzare il movimento in scultura operato da Umberto Boccioni, in Forme uniche nella continuità dello spazio.
Ebbene, proprio il coniugare la dimensione della scultura con la dimensione del movimento è la sfida che accoglie e vince l’opera di Vincenzo Avagliano. In Resurrectio l’artista fa vedere il processo del percorso dalla morte alla vita: Cristo si stacca dalla croce e si rivela nelle sue sagome corporee che si succedono l’una dopo l’altra, quasi a mostrare i vari passaggi dell’avvenimento misterioso per eccellenza.
Cristo: le braccia aperte in un gesto che dalla crocifissione trapassa nella risurrezione verso la quale Egli procede inarrestabilmente, il polso destro legato al braccio della croce, il polso sinistro che ancora mostra il laccio che lo legava, ma ormai libero e staccato dal legno, le braccia protese in avanti a varcare e superare i limiti della materia, del tempo e dello spazio.
Cristo risorge non dal sepolcro, ma direttamente dalla Croce, a sottolineare come per l’Uomo-Dio la morte sia tutt’uno con la risurrezione, in quella inscindibile unità espressa dall’annuncio apostolico delle origini, quando la Chiesa nascente proclamava il cherigma di Cristo-morto-e-risorto.
A sottolineare, anche, come dal sacrificio della croce e quindi dalla sofferenza nasca la vita, per se stessi e per gli altri.
Nei mosaici di Mirco Ivan Rupnik, dalla Cappella Redemptoris Mater in Vaticano, al Convento delle Orsoline a Verona, la Risurrezione di Cristo, che nell’iconografia bizantina si svolge come Discesa agli Inferi dove il Signore discende per riportare con sé le anime dei giusti, il Cristo, luminoso e carico di vitale energia, si staglia contro il buio fitto che significativamente allude alle tenebre degli inferi. Parimenti il Cristo di Vincenzo Avagliano risorge nella sua imponenza michelangiolesca: una realtà nuova, non pienamente trasfigurata nel corpo di luce e che conserva ancora i segni delle lesioni dove san Tommaso Didimo, il gemello della nostra incredulità, commenta mirabilmente sant’Agostino, pose le sue dita e toccò le trafitture delle ferite.
Una materia dove, in un rapporto tumultuoso di chiari e di scuri, la luce combatte con le ombre e vince, affermandosi in un corpo che si staglia contro il suo stesso corpo inchiodato sulla croce, ancora avvolto dal mistero tenebroso della morte.
Quel mistero che permane percepibile nel viso del Cristo, gli occhi socchiusi a guardare indietro, a non dimenticare quelli che rimangono avvolti nelle tenebre e nell’ombra di morte che egli stesso, Uomo-Dio, ha attraversato: “Poiché dunque abbiamo un megas archiereus, un grande sommo sacerdote che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostra infermità, essendo lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al tempo opportuno” (Eb 4, 14-16).
Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio.